Ambientato in un orfanotrofio chiamato Il Grave, il film segue le vicende dei due protagonisti, Nica e Rigel, mentre cercano di trovare un senso nella loro vita priva di amore e affetto.
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Un film poco avvincente che esplora l’amore e la ricerca di identità
Il fabbricante di lacrime coinvolge il pubblico senza tuttavia conquistarlo, colpa o merito della sua narrazione inquietante e poco limpida, agio e disagio della semplicità della trama e dell’esoterismo da camera dei personaggi.
Attraverso tre fasi significative – il rifiuto ancestrale, la difesa e l’attaccamento alla solitudine – il regista Alessandro Genovesi mette in luce le diverse sfumature dell’amore e come esse influenzino la vita dei personaggi principali.
La scrittura cinematografica, poetica ed emotiva – decisamente troppo emotiva – si fonde con immagini suggestive e colori freddi che creano una atmosfera che inquieta e attrae.
Un orfanotrofio isolato: la cornice “inquietante” del film
Si chiama Il Grave, ed è un orfanotrofio isolato. Ebbene sì, proprio come nel più banale degli horror. È questo il luogo immaginario che fa da cornice alla narrazione di Alessandro Genovesi: un’ambientazione intrisa di solitudine e tristezza, ma che allo stesso tempo riesce a trasmettere in qualche modo un senso di speranza.
Nella cornice di questo orfanotrofio, i protagonisti Nica e Rigel affrontano le sfide della loro esistenza senza famiglia o un luogo a cui chiamare casa. Le immagini visive del film catturano perfettamente l’essenza dell’isolamento e della desolazione dell’orfanotrofio, creando una sensazione palpabile di malinconia e struggimento.
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