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Un’arte della fuga nel cinema
Il cineasta portoghese Miguel Gomes ha sempre avuto un approccio distintivo al cinema, considerandolo un’arte della fuga. Con il suo ultimo lavoro, Grand Tour, questa concezione si arricchisce di nuove sfumature, portando lo spettatore in un viaggio che sfida le convenzioni narrative tradizionali. La pellicola si basa su un romanzo di William Somerset Maugham, Il gentiluomo in salotto, e narra le avventure di Edward, un funzionario britannico in Birmania, che decide di fuggire dalla sua fidanzata intraprendendo un lungo viaggio attraverso l’Asia.
Un viaggio tra realtà e finzione
La trama di Grand Tour si sviluppa in un contesto esotico, dove il protagonista si muove tra città come Rangoon, Singapore e Shanghai. Tuttavia, ciò che colpisce di più è l’abilità di Gomes nel mescolare elementi di documentario con la narrazione cinematografica. Le scene recitate, che richiamano il cinema muto, si alternano a immagini reali dei luoghi visitati, creando un cortocircuito temporale che invita lo spettatore a riflettere sulla natura della rappresentazione. Questo approccio non solo arricchisce la narrazione, ma la trasforma in una riflessione profonda sull’incontro tra il reale e l’immaginario.
Ironia e astrazione nel racconto
Gomes utilizza l’ironia come strumento per distanziare il pubblico dalla storia, rendendo Grand Tour un’opera che invita a una visione critica. I personaggi, immersi in scenari che sembrano artificiali, si muovono in un contesto che sfida le aspettative del naturalismo. La scelta di rappresentare spettacoli tradizionali, lontani dalle convenzioni cinematografiche, sottolinea ulteriormente l’intento del regista di esplorare l’astrazione. In questo modo, Gomes non solo racconta una storia, ma invita a riflettere su cosa significhi realmente ‘fuggire’ e come il cinema possa essere un mezzo per esplorare questa tematica.