Un'analisi del film di Margarida Gil e della sua riflessione sulla verità nel cinema
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Il cinema, da sempre, si è presentato come un medium capace di catturare la realtà, ma cosa succede quando questa realtà viene distorta? Mãos no fogo, il film di Margarida Gil, affronta questa tematica attraverso gli occhi di Maria do Mar, una giovane studentessa di cinema. La sua tesi, incentrata sulla realtà nel cinema, la porta a esplorare una villa barocca nel nord del Portogallo, dove si intrecciano storie di segreti e ambiguità. La camera di Maria, una Krasnagorsk-3, diventa il suo strumento di indagine, ma anche un mezzo attraverso il quale la verità si fa sempre più sfuggente.
La villa, di proprietà dell’enigmatico Leonardo, è un microcosmo di tensioni e misteri. Con i suoi nipoti orfani e la governante Lou, la casa si trasforma in un luogo di scoperta e inquietudine. La presenza di elementi decorativi fittizi e le interviste ai bambini, che infrangono la quarta parete, rendono il film un’esperienza immersiva. La piccola Flora, in particolare, si rivolge direttamente alla macchina da presa, creando un effetto di disorientamento che sfida la percezione dello spettatore. La frase della cuoca, “il male è negli occhi di chi guarda”, risuona come un monito: la verità è soggettiva e spesso distorta.
Un altro aspetto fondamentale di Mãos no fogo è l’uso del suono. Maria e la sua amica Gracinha registrano i rumori esterni, scoprendo che il silenzio può rivelare più di mille parole. I suoni amplificati del vento e le voci indistinte creano un’atmosfera di suspense, suggerendo un mondo invisibile che si cela dietro le apparenze. La musica, da Mozart ai bambini che suonano il pianoforte, accompagna il viaggio di Maria, sottolineando il potere evocativo del suono nel cinema. La sua evoluzione personale si intreccia con la scoperta di un universo complesso, dove ogni nota e ogni rumore raccontano una storia.
Il film culmina in un gesto simbolico: Maria si tuffa nel fiume Douro, cercando di liberarsi dai fantasmi che la perseguitano. Questo atto catartico rappresenta una ricerca di identità e verità, un tentativo di specchiarsi nelle acque e scoprire il proprio volto. La narrazione di Margarida Gil si chiude su una nota di ambiguità, lasciando lo spettatore con interrogativi irrisolti. La macchina da presa, infatti, riesce a catturare solo una frazione di questo universo sommerso, confermando l’idea che il cinema, in fondo, è una bugia a 24 fotogrammi al secondo.