Tokyo Sonata è una musica che ci riconsegna, scena dopo scena, a noi stessi. Con tutte le nostre fragilità, finalmente liberi da tutti i modelli (degli altri).
Il film Tokyo Sonata, diretto da Kurosawa Kiyoshi e dal 8 marzo disponibile in Italia su MUBI, offre uno sguardo intimo sulla vita di una famiglia giapponese contemporanea. In realtà, però, parla di tutti noi. Anzi, sarebbe ancor più coretto dire, di ciascuno di noi.
Le dinamiche interne che minano la stabilità e l’armonia della famiglia Sasaki sono un elemento chiave. Il padre Ryuhei, ad esempio, esercita un’autorità oppressiva all’interno del nucleo familiare, ignorando le necessità degli altri membri. Questa mancanza di comunicazione e comprensione porta a una crescente sottomissione da parte di Megumi, la madre e vera protagonista di Tokyo Sonata.
Tuttavia, anche i figli, Takashi e Kenji, sono protagonisti delle tensioni interne. Takashi si sente disconnesso dalla famiglia e nasconde un profondo senso di insoddisfazione e incertezza verso la sua vita, mentre Kenji sviluppa segretamente il suo talento per il pianoforte nonostante il divieto paterno. Queste dinamiche conflittuali portano allo sgretolamento progressivo della famiglia Sasaki e mettono in luce le complessità delle relazioni familiari.
Attraverso la storia della famiglia Sasaki – una famiglia come tante, ma anche, sotto molti punti di vista, come poche – Kurosawa Kiyoshi esplora temi sempre attuali e tuttavia raramente scandagliati a dovere quali l’identità individuale, l’impatto delle difficoltà economiche sulla vita familiare e la ricerca della felicità personale.
A convincere e commuovere, in particolare, è però il modo in cui queste tematiche vengono affrontate e approfondite, o, meglio ancora, la maniera in cui vengono rappresentane e quasi cantante. Tokyo Sonata, sequenza finita di immagini sconfinanti e suoni eterni, è infatti una vera e propria musica. Una musica fatta di immagini che parlano da sole.
Fin dalle primissime battute, lo spettatore danza coi personaggi, ne è totalmente conquistato. Impossibile non soffrire con loro, non sentirne sulla retina – che degli occhi è la pelle – l’angoscia e il nichilismo attivo. Tutti, in Tokyo Sonata, cercano infatti qualcosa, sono accecati dalle luci di uno o più desideri. Ed è proprio in questo che risiede il problema della modernità, che è anche il nostro, quello, appunto, di noi spettatori, convinti e commossi da questo film che ci mette a nudo davanti a noi stessi, che ci disvela davanti agli occhi, tetra e irrispettosa, una verità che non avremmo mai avuto il coraggio di raccontarci: niente ha senso, e, cosa ancora più crudele, almeno per noi moderni, non saremo mai chi dobbiamo essere. Non raggiungeremo mai quel successo, quella condizione economica, quella soddisfazione, quella fama.
È a questo punto, tuttavia, che dopo aver toccato la sua nota più triste e buia, il film cambia improvvisamente musica e ci riporta in alto, verso i fasti di un cuore che nuovamente sogna, allettato e conquistato da una melodia allegra, inno di accettazione, e non già, non per forza, di trionfo, ma pur sempre inno, invito a ritornare, a ri-credersi, e quindi a ri-credere, a credere una volta ancora, a creder-ci.
Del resto, pensateci, le cose stanno proprio così. Se non dobbiamo essere – quello che la società ci mostra, quello che la storia ci prescrive, quello che la famiglia ci trasmette, quello che gli amici ci raccontano -, allora possiamo essere. E se possiamo essere, allora possiamo tornare a sognare.
Così, i fantasmi svaniscono, le ansie si dissipano e i modelli si sfaldano. Così – Tokyo Sonata grazie, grazie e grazie ancora!, anche noi moderni, persino noi moderni, possiamo finalmente svegliarci dall’incubo dell’identità ad ogni costo e del costo di ogni successo. Svegliarci e tornare a sognare. O meglio, decisamente meglio: risvegliare i nostri sogni.