Una storia di licantropia che riflette sui legami familiari: Wolfkin è il nuovo horror del regista lussemburghese Jacques Molitor, al cinema dal 24 agosto.
Wolfkin di Jacques Molitor: la trama
Elaine (Louise Manteau) sta crescendo da sola il figlio Martin (Victor Dieu), il padre del quale è sparito poco dopo il concepimento. Il bambino, però, comincia a mostrare degli strani atteggiamenti aggressivi, che preoccupano le maestre a scuola: ha morso alcuni compagni di classe. Disperata, Elaine decide di portarlo a casa dei nonni paterni, gli unici familiari rimasti a cui potrebbe chiedere aiuto nell’educazione del figlio. Ben presto si accorge, tuttavia, che la sontuosa tenuta in cui vivono da generazioni nasconde terribili segreti.
Un horror sorprendente
In equilibrio fra gli stilemi classici del genere e il dramma familiare, Molitor crea un horror d’atmosfera dai toni enigmatici e crudi, che mantiene un’estetica molto curata. È lo stesso regista ad affermare di aver scelto una location particolarmente idilliaca, come la regione turistica della Mosella, proprio per “scavare il marciume sepolto sotto la superficie”.
In un’intervista racconta di come sia nata l’idea per il soggetto di Wolfkin: “Anni fa, ho scoperto che gran parte della storia della mia famiglia e della mia identità erano una bugia bianca. Uno shock che mi ha portato a confrontarmi e a pormi delle domande difficili sulla condizione umana”. Molitor prende questa riflessione sui legami familiari e la trasporta in un contesto orrorifico. Costruisce per il personaggio di Martin un licantropo che si ispira ai mostri amichevoli di Guillermo Del Toro, ma anche al body horror di David Cronemberg.
Mostruosità familiari
Al centro del film troviamo la tematica dell’accettazione del diverso e l’amore incondizionato di una madre per il proprio figlio. La trama, infatti, è molto classica, ma sono l’originalità della messa in scena e dell’approccio all’argomento a fare di Wolfkin un film piacevolmente tensivo. Molitor si focalizza sul rapporto madre-figlio, costruendo una dinamica quasi morbosa. Elaine, che inizialmente vorrebbe addomesticare Martin per riportarlo nella società, farebbe di tutto per il suo bambino. La donna fatica ad accettare la sua natura mostruosa, un retaggio che proviene dalla famiglia del padre di Martin, gli Urwald (che in tedesco significa giungla). Si tratta del perfetto prototipo del nucleo domestico patriarcale, intriso di tradizioni tossiche, isolato e indipendente. I nonni del bambino cercano di imporgli un’educazione rigida, per sopprimere l’animale che è in lui. Martin, tuttavia, vorrebbe seguire le orme del padre, che si è lasciato andare alla sua natura selvaggia, fuggendo da generazioni di occultamenti e falso perbenismo. Il motto della famiglia è, infatti, la somma dimostrazione di ipocrisia di questo sistema costruito sulle menzogne: “Nascondiamo chi siamo e mangiamo ciò che vogliamo essere”. È così che si sviluppa il nucleo centrale del lungometraggio: Il conflitto tra costrizione e libertà che si riassume nel personaggio di Martin, teso alla liberazione dai vincoli e dalle convenzioni della società.